Caro Tremonti, ecco cosa fare per non fallire come la Grecia
di Mauro Bottarelli Un  po’ di chiarezza appare necessaria. Quello che sembrava un salvataggio  ormai annunciato, ovvero il sacrificio dei partner europei per venire  incontro alla Grecia e al suo rischio di default e contagio dell'intera  eurozona, assume giorno dopo giorno sempre più i contorni di un giallo.  O, peggio, di una sonora presa in giro. Difficile che la stampa italiana, ad  esempio, abbia raccontato di quanto avvenuto nello scorso fine settimana  in Olanda, dove alla Tweede Kamer del Parlamentro è passata una mozione  in base alla quale «non un centesimo delle tasse degli olandesi dovrà  essere stanziato per salvare la Grecia». Questo anche attraverso l'Ue o  altri organismi bilaterali. La Germania, poi, non dimostra maggiore  apertura, nonostante Angela Merkel sia stata di fatto l'artefice  dell'iniziativa europea.   Il Bundestag ha di fatto definito  “illegale” il salvataggio di Atene e un sondaggio della Frankfurter  Allgemeine Zeitung ha evidenziato come la quasi totalità dei  contribuenti tedeschi sia contraria a ogni ipotesi di bail-out,  salvataggio, poiché «appare inaccettabile l'innalzamento dell'età  pensionabile per i tedeschi a fronte del finanziamento a fondo perso  della Grecia, quasi i suoi cittadini possano godersi la pensione  anticipata grazie alle nostre tasse». Evviva l'Europa unita!   A far capire che i guai potrebbero  essere solo all'inizio ce lo fa capire l'atteggiamento della SAFE, il  mega-fondo riserva cinese, che non sta scommettendo un solo yuan del suo  capitale di 2,4 trilioni di dollari sulla Grecia o sul Club Med e il  suo debito. SAFE è lo stesso player che scaricò bellamente le azioni di  Fannie Mae e Freddie Mac quando pareva che Washington stesse per dire  addio alle politiche di semi-nazionalizzazione.   Una cosa è certa: il mercato finanziario  guarda affascinato a quanto sta accadendo in Europa. Anche perché,  lentamente, emergono particolari allarmanti. È di ieri infatti la  notizia che i partner Ue intendono chiedere chiarezza alla Grecia  riguardo le sue pratiche di swap per rifinanziare il debito negli scorsi  anni, rese possibili dal lavoro di Goldman Sachs, JP Morgan Chase e  Morgan Stanley, i cui emissari si sono recati a più riprese ad Atene per  offrire consulenze sulle meravigliose sorti e progressive degli  strumenti di finanza derivata per rifinanziare quel buco nero chiamato  debito. Grazie  a quei giochini, simili in parte a quelli che hanno inquinato i conti  di tre quarti degli enti locali italiani, il debito greco appariva molto  sotto il livello reale, permettendo quindi di non incorrere nella  mannaia né delle agenzie di rating - che invece sapevano benissimo come  stavano le cose, essendo pappa e ciccia con le banche d'affari che  offrono quei prodotti - né dell'Unione Europea. A denunciare l'accaduto  ci ha pensato il New York Times, raccontando come l'ultima visita di  emissari di Goldman Sachs, guidata nientemeno che dal presidente in  persona, si sia tenuto lo scorso novembre, insomma quando i buoi erano  ormai fuori dal recinto e servivano misure d'emergenza.   I contratti, estremamente complessi, si  basavano di fatto su un criterio molto semplice: denaro contante a  fronte di un promessa di ripagare, con gli interessi garantiti dallo  swap, in futuro. Swap è un termine inglese (letteralmente baratto,  scambio) utilizzato per identificare quei contratti finanziari in cui  due controparti si impegnano a scambiarsi flussi monetari in entrata o  in uscita, e a compiere l'operazione inversa a una data futura  predeterminata.   Il caso di scuola è quello di un ente  locale, che ha contratto un mutuo di 100 miliardi tasso fisso (10%) con  la Cassa depositi e prestiti, e che deve quindi pagare periodicamente  degli interessi (10 miliardi l'anno). L'operazione si rivela onerosa in  seguito alle mutate condizioni di mercato, e l'ente decide quindi di  legare il mutuo a un parametro di indicizzazione (un tasso del 5%)  maggiorato di uno spread (un differenziale) del 5%, scommettendo su un  ribasso dei tassi di interesse. Stipula così un contratto di swap con  una banca, la quale garantisce il tasso fisso contro quello variabile.   Se il tasso variabile aumentato dello  spread è inferiore al tasso fisso, e scende ad esempio attorno all'8%,  l'ente ne ottiene un vantaggio, può ridurre le sue spese e di  conseguenza il suo deficit. Viceversa, se il mercato fa salire i tassi e  l'onere complessivo schizza sopra il 10%, sarà la banca a incassare di  più, e l'ente vedrà salire le sue spese e il suo deficit. Il caso può  essere traslato dagli enti locali agli Stati, che si indebitano sui  mercati internazionali con emissioni obbligazionarie in valuta locale o  estera, sulle quali sono costrette a pagare dei tassi di interesse.   A cosa abbiano portato queste continue  pratiche, è ora sotto gli occhi di tutti. Insomma, Wall Street non ha  creato la crisi del debito greco ma l'ha coperta per mesi: e il timore,  almeno così si paventa a Londra, è che altri paesi si siano fatti  sedurre da questi contratti swap per tenere sotto controllo il debito  pubblico galoppante. I nomi che circolano sono quelli di Spagna,  Portogallo e Italia: ovvero, gli altri tre membri dei Pigs. Tremonti  farebbe bene a dare un'occhiata, visto che è noto a tutti che nel 1996  l'Italia ha stipulato un contratto swap con JP Morgan, un'operazione sui  derivati che permise di riportare il budget in linea attraverso uno  swap monetario con la banca d'affari a un tasso di cambio favorevole. Il  problema è che quel tipo di contratto, che permise al governo italiano  di ottenere denaro fresco, aveva come clausola il fatto che i futuri  pagamenti effettuati dall'Italia non sarebbero stati messi a bilancio  come liabilities, ovvero fonte di perdita.   I derivati sono strumenti straordinari,  peccato che bisogna saperli utilizzare. Ed evitare le scatole cinesi dei  derivati sui derivati. Ripeto, Tremonti dia una bella occhiata a quanto  fatto e pattuito in passato, a New York non mettono la mano sul fuoco  sulla stabilità del debito italiano e anche l'uscita di Jean-Claude  Trichet di domenica non dovrebbe farci stare troppo sereni.   La crisi greca, nei fatti, non  rappresenta la fine dell'eurozona ma certamente l'inizio della fine:  troppo difficile mantenere insieme economie così differenti in tempi  difficili come questi, troppo forte ancora la spinta egoistica e sovrana  dei vari governi a fronte di un'inconsistenza politica totale di  Bruxelles. Occorre coraggio, a partire da casa nostra.   Tremonti butti l'occhio, i continui  stop-and-go sull'abbassamento delle tasse, l'ipotesi di  contro-finanziarie e altri allarmi - come quello di Baldassarri a  Ballarò, «In cassa non c'è più una lira» - fanno pensare che a New York  abbiano ragione. Occhio a come si muoveranno i fondi e come varierà il  numero di contratti contro euro e debito di Pigs e Italia al Chicago  Merchantile Exchange: le prossime settimane, forse, ci diranno la  verità. Non potrebbero non essere cose piacevoli da sentire. Fonte articolo: http://www.ilsussidiario.net


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