di Mauro Bottarelli
Michel  Barnier, commissario europeo per gli Affari finanziari, è stato  chiarissimo nel suo intervento al Workshop Ambrosetti di Cernobbio,  addirittura cristallino: nessuno potrà sfuggire alla nuova  regolamentazione europea che, se il lavoro proseguirà con questo ritmo,  sarà pronta in versione di bozza per il 15 settembre. No one, nessuno.  Due i punti chiave: normative sui derivati e sullo short selling che,  stando alle indiscrezioni, verrà vietato.
Dopo la mossa stalinista di Barack  Obama, ora anche l'Europa mette - o prova a mettere - i bastoni tra le  ruote al libero mercato: Londra ringrazia sentitamente. Come se questo  servisse a qualcosa. Nonostante il crollo di Lehman, la bolla dei  subprime e quanto è seguito, infatti, nulla è cambiato: i volumi dei  derivati scambiati sono aumentati. Solo nel mercato valutario c’erano  transazioni quotidiane per 3.300 miliardi di dollari nel 2007 mentre  quest'anno sono stati superati i 4.000 miliardi. Le cose non vanno  meglio per il segmento dei derivati sui tassi d’interesse, cresciuti  nell’arco del 24 per cento nell’arco di un triennio, toccando i 2.100  miliardi di dollari scambiati ogni giorno.
Il dito di Barnier, difficilmente,  riuscirà a frenare la diga che sta per esondare. D'altronde, le banche  non hanno voglia di farsi regolamentare, basti pensare all'esempio che  ho portato nell'articolo di giovedì scorso, ovvero l'oceano di scommesse  sui cds contro il debito italiano. Ogni giorno sui mercati non  regolamentati, il vero problema che Barnier non sembra vedere, si  scambiano circa 575 milioni di dollari in protezione sul debito  italiano.
E sono, sempre secondo l'ente di  vigilanza sui derivati, solo 17 i soggetti che vendono questa  immunizzazione: Bank of America Merrill Lynch, Barclays, BNP Paribas,  Calyon, Citibank, Credit Suisse, Deutsche Bank, Goldman Sachs, HSBC,  JPMorgan, Morgan Stanley, Natixis, Nomura, Royal Bank of Scotland,  Société Générale, UBS e l'italianissima - ancorché internazionalizzata -  UniCredit.
el  caso dell’Italia tutti concorrono alla vendita dei Cds, UniCredit  compresa, la quale fa benissimo e non compie alcun reato. Con una media  di 21 operazioni di copertura sul debito italiano, per le 17 regine dei  derivati si aprono le porte delle commissioni. Infatti per ogni singola  transazione le banche guadagnano cifre variabili rispetto all’entità:  non è difficile capire chi siano gli scacchieri dietro a questa  girandola di scommesse, più vendo più guadagno.
Il 39 per cento dei Cds circolanti sull’Italia sono detenuti da cinque  soggetti: Paulson, quel filantropo di Soros, Moore, Citadel e il fondo  sovrano China Investment Corporation: quattro hedge fund statunitensi e  il principale veicolo d’investimento di Pechino sono attualmente su  posizioni ribassiste nei confronti del nostro Paese. E non sono i soli.
Il peso degli investitori si fa sentire  sempre di più sul debito italiano. Gli oltre 1.800 miliardi di euro  convincono poco i mercati, che hanno deciso di proteggersi dalle brutte  sorprese: dallo scorso marzo, quando erano stati accesi circa 5.600  contratti di protezione sui rischi italiani, si è passati a oltre 6.600  nelle ultime settimane. La scadenza media è di un anno, sintomo della  percezione negativa che gli investitori hanno del nostro Paese. In  compenso, la maggioranza va in frantumi tra polemiche corrosive e il  nostro ministro dell'Economia si permette di bollare come "da bambini" i  giudizi del governatore di Bankitalia, Mario Draghi.
Ma torniamo a Barnier, il quale a  Cernobbio ha parlato chiaro. Cristallino. Peccato si sia ben guardato  dal rivelare quanto lui e la Commissione Ue hanno di fatto già deciso e  che ora devono trovare il modo, oltre che il coraggio, di comunicare.  Gli stress test sulle banche vanno rifatti perché eseguiti con criteri  ridicoli e soprattutto perché ritenuti non credibili dalle istituzioni  finanziarie ma, soprattutto, dai soggetti corporate. Ovvero, le aziende  che con le banche hanno a che fare ogni istante. Una larga parte delle  quali, sia nel Regno Unito che nell'Europa continentale, hanno messo nel  mirino le banche italiane, spagnole e tedesche e stanno conducendo  stress tests indipendenti per valutare realmente la robustezza di questi  istituti: le revenues di queste aziende, tanto per capire il loro peso,  è di 240 miliardi di dollari l'anno.
«La  cosa che ci sta facendo preoccupare maggiormente è il rischio del  credito», ha dichiarato al Financial Times il tesoriere di uno dei  principali gruppi industriali tedeschi, secondo cui «anche dopo gli  stress tests, noi tutti continuiamo a porci la stessa domanda: le banche  sono davvero sane? Penso che i tests, lungi dall'aver dato delle  rassicurazioni, hanno solo aggiunto domande a domande e timori a timori,  soprattutto qui in Germania».
Per Stuart Siddall, presidente dell'Association of Corporate Treasurers,  le aziende hanno posto alla prima posizione delle loro priorità il  fatto di chiarire realmente lo stato di salute delle banche: «Mai visto  spendere tanto tempo, risorse ed energie rispetto al rischio di  controparte».
Per il tesoriere di una grande aziende del settore media, «gli stress  tests sono stati niente più che uno scherzo. Bisogna capire se  l'imperatore ha ancora dei vestiti o è nudo e, soprattutto, cosa fare se  la situazione reale è la seconda. Siamo paranoici al riguardo e  monitoriamo i rumors del mercato molto attentamente». Altra ossessione  per queste aziende sono i cds, un mercato che ormai interessa più di  quello azionario: «Le agenzie di rating stanno agendo troppo lentamente -  attacca il tesoriere di un altro grande gruppo industriale tedesco -,  noi stiamo monitorando lo stato di salute delle banche ogni giorno,  anche al fine di aggiustare i nostri limiti».
Per il tesoriere di un'azienda quotata  nell'indice Ftse 100 della Borsa di Londra, quanto sta accadendo è la  naturale risposta del mercato alla poca trasparenza d istituzioni e  regolatori: «Non abbiamo alcun business con banche spagnole e anche con  un paio di istituti italiani e tedeschi. Se le banche americane non  vogliono avere a che fare con questa gente, perché dovremmo farlo noi?».
Già,  perché? D'altronde non il sottoscritto ma Nouriel Roubini, uno che la  crisi l'aveva anticipata pur restando inascoltato, ha chiaramente detto  che se sarà possibile evitare l'opzione double-dip, una seconda fase di  recessione è quasi ineluttabile: fase, durante la quale, a suo modo di  vedere saranno circa 400 le banche Usa destinate a fallire.
Chissà perché Barnier non ha voluto  spendere una parola su questo, limitandosi a mostrare la faccia cattiva  agitando lo spettro della regolamentazione? Chissà, forse è troppo  imbarazzante ammettere di aver dato vita a una farsa travestita da  stress tests e ora ritrovarsi obbligato a rifarli, secondo criteri seri,  prima che siano i soggetti privati, tramite i loro studi, a mostrare  davvero quanto è nudo il Re bancario: il Core Tier 1 di moltissime  banche, infatti, una volta ripulito da artifici e assets assolutamente  inutili in fase di stress, raggiungono a malapena 2,5 per cento.
Se i grandi fondi stanno shortando le  azioni di cinque grandi istituti bancari europei, tra cui Barclays e  Intesa-San Paolo, qualche motivo ci sarà. Va bene la speculazione, va  bene l'azzardo ma nessuno è così masochista da scommettere al ribasso  contro un soggetto finanziario in salute. Chissà se questo semplice  ragionamento avrà sfiorato la raffinata mente di Michel Barnier?
P.S. So di essere tacciato di pessimismo  cosmico e catastrofismo à la page ma stavolta dubito che si possa  mettere in  dubbio quanto ho scritto, almeno stando al link che allego  per tutti i lettori e che è stato pubblicato da Cnbc ventiquattro ore  dopo l'invio del mio pezzo, ovvero ieri mattina dopo l'apertura delle  contrattazioni. Leggete e chiedetevi se i regolatori con cui abbiamo a  che fare non siano da prendere a calci nel sedere.
Buona lettura e buona giornata
    
 
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