Cornelius  Castoriadis soleva dire che viviamo in una «epoca di acque basse».  L'espressione era ben trovata. L'Europa oggi sembra non avere alcun  contenuto sostanziale. Non mira a nessun progetto comune, non vuol più  avere nessun ruolo storico. Addirittura, nessuno è d'accordo  nell'individuare ciò che la potrebbe definire. L'Europa si trasforma  lentamente in un vasto caravanserraglio, senza storia, senza memoria e  senza frontiere. Costituisce una sorta di massa inerte, ma agitata da  tutte le parti. Vi si esiste senza viverci. Vi ci si muove  incessantemente, ma per non andare da nessuna parte. Vi si osservano  mille forme, che però non hanno contorni. Vi abbondano i poteri, ma non  ha potenza. Tutti pretendono di essere differenti, ma l'indistinzione è  la regola.
  
Le  immagini e i rumori si succedono sul registro dell'effimero e della  superficialità. Puntano ad attirare l'attenzione, a distrarre, a far  pensare ad altro, o più precisamente ad impedire di pensare.  L'insignificante diventa legge generale. Viene da pensare al mondo  descritto nel film dei fratelli Wachowski, Matrix. Ognuno vi considera  vero quel che è inautentico, ognuno vi è manipolato nel momento stesso  in cui si crede libero. Mai gli uomini hanno tanto creduto di fare quel  che vogliono, mai sono stati assoggettati a così tante regole. Non  sanno, del resto, cosa davvero vogliono, dal momento che è lo stesso  sistema a modellare i loro desideri. La pubblicità, onnipresente, ripete  instancabilmente il medesimo e unico messaggio, ovvero che la felicità  risiede nell'acquisizione di oggetti, nell'accumulo delle cose.  L'ideologia della merce, alla continua ricerca di nuovi sbocchi,  generalizza il vuoto spettacolare-mercantile. Siamo alla reificazione  dei rapporti sociali, al trionfo senza limiti della dialettica  dell'avere sulla comunità dell'essere.
  
Ogni  giorno vengono distrutti migliaia di posti di lavoro, ma nessuno pensa a  difendere qualcosa che non sia il proprio interesse personale. Le lotte  sono esclusivamente di categoria, senza che alcunché le subordini a  qualcosa di più generale. Gli scontenti si addizionano ma non si  aggregano. Al sistema si rimprovera di distribuire male le cose, non di  essere ormai capace solamente di produrre cose. La stessa vita politica è  caratterizzata dalla neutralizzazione-privatizzazione, dalla sfiducia e  dall'astensione. In regime di atomizzazione sociale, quando ogni  esistenza individuale viene vissuta come un assoluto, le masse non  racchiudono dentro di sé nessuna capacità di mobilitazione. Inerti e  spugnose, svuotate di qualunque energia; pronte ad assorbire tutto, si  sono trasformate in quelle «maggioranze silenziose» delle quali parlava  Baudrillard, che sono maggioranza soltanto come silenzio.
  
La  più grande vittoria del sistema consiste nell'aver persuaso le menti  non delle proprie qualità ma del proprio carattere fatale. Il sistema  non pretende di essere perfetto, sostiene che non esistono alternative.  Ma se non si può più sperare in un mondo migliore, non c'è più niente da  fare. Così si generalizza quel «disagio della civiltà» di cui parlava  Sigmund Freud. Il disagio deriva dal fatto che le persone sperimentano  immense miserie in un mondo in cui viene loro ripetuto che non possono  che essere felici. Tocqueville, come è noto, aveva previsto tutto ciò. E  anche Nietzsche, quando evocava «l'ultimo uomo».
  
Ma  il peggio non è in questo. Il peggio è che il sistema non può più  essere contestato, non più tanto perché rifiuta e sanziona la  contestazione, ma perché la assorbe e la digerisce, immunizzandosi in  tal modo contro di essa. Non sono più soltanto i falsi ribelli ad essere  in discussione. Aggiungendosi ai "pentiti" e agli allineati, i falsi  ribelli sono coloro che pretendono di prendersela con i tabù dominanti,  quando invece da un bel pezzo non fanno altro che sfondare porte aperte  ed esibire insolenze calcolate, adatte tutt'al più a far loro attribuire  la redditizia posizione di buffone di corte o di opposizione di sua  maestà. (Eppure, in ogni società, è facile individuare dove si trovano i  veri tabù: sono quelli la cui rimessa in discussione scatena azioni  giudiziarie). Il dramma è, semmai, che la vera rivoluzione non trova più  nessun punto d'appoggio, nessun agente storico che le consenta di  incarnarsi. Ci sono sempre, certo, dei veri ribelli, ma essi vivono in  solitudine, o rinchiusi in cerchie marginali che non hanno più alcuna  presa sul mondo. Il sistema dominante ingoia tutto, si nutre di tutto.  Un «Picasso» in altri tempi era un quadro, oggi è un'automobile. Guy  Debord lo si espone alla Biblioteca nazionale di Parigi, i manifesti del  maggio Sessantotto servono alle pubblicità commerciali e si fabbricano  dei loghi utilizzando il volto di Karl Marx, di James Dean o di Che  Guevara. La straordinaria capacità del sistema di recuperare a proprio  profitto quasi ogni cosa pone direttamente una domanda: che cosa è  irrecuperabile? Ma l'enigma del soggetto storico persiste tal quale.
  
Non  si tratta certo di rimpiangere i "grandi racconti" della modernità, che  hanno fatto di gran lunga il loro tempo. Bisogna però pur constatare  che il deficit di senso — la scomparsa dei "punti di riferimento" — che i  nostri contemporanei percepiscono confusamente è prima di tutto la  conseguenza del crollo di tutti i progetti collettivi. Quel che fa  difetto è l'orizzonte di senso creato da valori condivisi, la chiara  consapevolezza che il vivere assieme è portatore di un destino comune.  L'esistenza individuale trova il modo di realizzarsi soltanto  collocandosi all'interno di un orizzonte di senso comune. E la  reciprocità fra i singoli individui ad aprire lo spazio di ciò che è  comune, inteso come il luogo di un reciproco riconoscimento. L'essenza  della vita comune non è generica, ma storica: costituisce il sito della  storia, il luogo della
  
messa in comune (koinonía), ciò a partire dal quale la storia avviene.
  
Ebbene,  mentre l'Europa esce dalla storia, il resto del mondo è scosso da  sommovimenti e soprassalti, che lasciano prevedere sismi in arrivo. Le  onde d'urto si propagano da un continente all'altro, mentre le minacce  si accumulano. Le scadenze ecologiche si precisano un po' più ogni  giorno, il sistema finanziario mondiale si mantiene ormai in uno stato  di imponderabilità, la crisi sociale si generalizza, gli squilibri  demografici si accentuano, un nuovo ordine geopolitico del mondo va  disegnandosi.
  
«La  fine della speranza è l'inizio della morte», diceva il generale de  Gaulle. La disperazione è sicuramente una sciocchezza, ma il fatto che  sia una sciocchezza non rassicura affatto. Non basta ricordare che la  storia è, per definizione, sempre aperta per potersi convincere che  tutto finirà con l'aggiustarsi. Innanzitutto, la storia non è aperta su  qualunque sviluppo, perché vi sono dei processi che non possono che  giungere al termine. Inoltre, può anche essere aperta al peggio. Ciò che  conta, in queste condizioni, è prestare attenzione ai segni  premonitori. Quando la storia risorge, lo fa in forme sempre inedite,  destinate a deludere i nostalgici che sognano un semplice ritorno al  vecchio ordine delle cose. Noi stiamo andando verso queste cose inedite.  Non sappiamo che cosa saranno, e non le faremo accadere. Accadranno da  sé. La vera scossa sistemica sarà interna al sistema, ma esterna alla  volontà degli uomini che, in ogni caso, non conoscono mai la storia che  fanno. La storia non è tanto aperta quanto piuttosto imprevedibile.  Tutto ciò che nella storia ha fatto rumore è stato preceduto da un  grande silenzio. Kata-strophè vuol dire rovesciamento. Anche nelle  epoche di acque basse la marea, un giorno, finisce con l'arrivare.
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