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Sulla precarietà

A quanto pare i temi del momento sono l'omicidio dello psiconano e il dibattito sul posto fisso lanciato da Tremonti. Il primo argomento è meglio lasciarlo da parte, troppo scottante! Per quanto riguarda il secondo vi rimando all'articolo che riporto più sotto. E' "appena appena appena" consolante sapere che c'è ancora una corrente di pensiero che giudica un errore l'aver preso la strada della flessibilità, o della precarietà che dir si voglia. Purtroppo quella della precarietà è un'idea che ci è stata talmente inculcata, talmente iniettata in profondità nelle carni, che siamo proprio noi, i semplici lavoratori dipendenti, le vittime designate, quelli che ormai non riescono ad immaginare il posto fisso se non come un'utopia!
Professor Luciano Gallino, in Italia negli ultimi 5 anni c'è stato un vero e proprio boom dei lavoratori precari, con un incremento del 16,9%, 5 volte superiore a quello dei dipendenti a tempo indeterminato. Come si è arrivati a questo punto?

Si è giunti a moltiplicare i lavori flessibili attraverso una serie di interventi sulla legislazione del mercato del lavoro che si sono succeduti almeno dal famoso protocollo del 1993. Poi abbiamo avuto il pacchetto Treu del 1997, che tra l'altro ha introdotto per la prima volta nel nostro paese il lavoro interinale. Con la legge 30 del 2003 siamo arrivati a prevedere 45 tipi diversi di contratti a termine. L'accordo del luglio 2007 tra sindacati, Confindustria e governo Prodi non ha granché modificato questa situazione. Il risultato è che oggi abbiamo intorno ai 4 milioni di lavoratori precari.

Centrosinistra e centrodestra sono perciò "corresponsabili". Anche la giustificazione data da entrambi è la stessa: era una strada obbligata per affrontare la globalizzazione. Ma è proprio così?

Si è dato per scontato che, poiché sul mercato c'erano quei "cattivi" di imprenditori cinesi e indiani che pagavano pochissimo i propri dipendenti negando loro tutti i diritti sindacali, ciò avrebbe esasperato la competizione sul terreno del costo del lavoro. Da qui l'esigenza di far fronte al problema con contratti che permettessero alle imprese di adattare la produzione all'andamento delle vendite. Con tanti lavoratori con contratti di due o tre mesi, se le commesse diminuiscono non c'è nessun problema: basta non rinnovarli. Il risparmio c'è anche sui contratti più lunghi: non avendo neanche la tredicesima mensilità, il reddito medio mensile su base annua di un precario è di circa 800 euro contro i mille e cento dei dipendenti a tempo indeterminato.

Dunque ha ragione il presidente dei Commercialisti, Siciliotti, quando afferma che «in Italia non si è in realtà mai introdotta la flessibilità intesa come opportunità aggiuntiva alle imprese, nel rispetto della tutela e della dignità del lavoro, ma solo surrettizi strumenti di risparmio» sul costo del lavoro.

Esatto. Solo che adesso cresce il numero di coloro che si rendono conto che questo è un pessimo modo non solo di gestire il mercato del lavoro, ma anche di organizzare l'impresa. La produttività del lavoro italiano, intesa come quota di Pil aggiunto per ora lavorata, da 10-12 anni è molto più bassa rispetto agli altri paesi europei e a ciò ha contribuito l'aumento della flessibilità, perchè questa ha avuto come risvolto una scarsa formazione dei lavoratori. Inoltre è difficile creare una organizzazione efficiente in ambiti lavorativi dove ci sono otto-dieci tipi di contratti differenti.

Si dice che la scelta di premere sull'acceleratore della precarietà è la conseguenza della peculiarità dell'apparato produttivo italiano, composto per oltre il 90% da piccole e medie imprese, notoriamente più esposte ai venti della globalizzazione in quanto fornitrici, perlopiù, di prodotti a basso valore aggiunto.

Questo è vero fino a un certo punto. Anche in Francia e in Germania ci sono tante piccole imprese. Quelle che in Germania vengono chiamate le imprese "del ceto medio" sono molto numerose e sono anche notevolmente produttive perché sono ben organizzate.

Quindi sarebbe possibile fare la stessa cosa anche in Italia?

Certamente sì, soprattutto se ci fosse quella politica industriale che in Italia non esiste da 30-40anni.

Il ministro Scajola sostiene che grazie alla flessibilità la disoccupazione nel nostro paese è scesa dal 10 al 7-8%. Ma ha senso che 3 precari che lavorano 4 mesi l'anno, dal punto di vista statistico valgano quanto 3 persone occupate a tempo indeterminato?

Sulla diminuzione del tasso di disoccupazione in questi ultimi anni ha pesato molto l'uscita dal sommerso di 700mila immigrati. Poi è chiaro che lavori precari e a tempo indeterminato non possono essere messi sullo stesso piano.

Secondo il presidente del Cnel, Marzano, «l'alternativa alla precarietà è la disoccupazione».

Mi sembra una giustificazione tecnicamente modesta. Se le leggi fossero diverse, se quello a tempo indeterminato fosse l'unico contratto possibile, le aziende non smetterebbero di assumere. Anzi, avrebbero maggiori incentivi per formare le persone.

Le imprese italiane si lamentano del costo del lavoro troppo alto. Hanno ragione?

E' vero che il peso dei contributi è intorno al 45%, lievemente più alto della media, ma i nostri sono i salari più bassi d'Europa. Un metalmeccanico di fascia media in Germania prende 2mila euro al mese, in Italia circa mille e 200. E adesso, con il nuovo contratto, otterrà il fantastico aumento di 28 euro al mese.

Bonanni della Cisl ora chiede che il lavoro flessibile costi di più.

Proposta difficile da essere accolta, dal momento che il lavoro flessibile è stato utilizzato dalle imprese italiane proprio per risparmiare. Quello che servirebbe è una vera politica industriale. L'Italia è un paese in declino e lo si vede da quella che io chiamo "miseria pubblica": treni per i pendolari, scuole fatiscenti, dissesto del territorio. Se non si cambia direzione, il declino proseguirà.

Roberto Farneti
Fonte: http://www.liberazione.it/
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=19256

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