Metodo Feltri
di Nando Dalla Chiesa
Mettiamola così. Immaginiamo che a un cittadino che fa politica  liberamente, secondo le proprie convinzioni o anche secondo le proprie  convenienze, qualcuno che non è d’accordo con lui o pensi di ricevere  qualche danno dalle sue libere scelte scriva una lettera di questo  tenore: “Gentile Signore, lei è in pericolo. Glielo dico prima: se lei  continuerà a dire le cose che sta dicendo o a perseverare nella  direzione che ha insensatamente intrapreso negli scorsi mesi, sappia che  farò avere ai giornali, ai suoi colleghi e avversari di partito dei  dossier che ho fatto raccogliere sul suo conto. E se pensa che si tratti  di puri dossier politici, sappia anche che girano certi rapporti a luci  rosse sugli ambienti che lei frequenta. Le annuncio solo che c’è dentro  di tutto e che ci si possono fare articoli a puntate. Non le dico  altro. Mi stia bene a sentire e ci rifletta”. Questo tipo di lettere in  genere si conclude senza firma. Perché il codardo sa che sta ricattando.  Che si sta muovendo al di qua del confine tra lecito e illecito. Che il  codice penale lo aspetta al varco.
Prendiamo ora ciò che ha  scritto Vittorio Feltri sul “Giornale” a Gianfranco Fini (riprendo da  Francesco Merlo su “Repubblica”). Avviso numero 1, quasi un anno fa,  perché non si avvicini troppo ai magistrati: “E’ sufficiente – per dire –  ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti  personaggi di Alleanza Nazionale per montare uno scandalo. Meglio non  svegliare il can che dorme”. Avviso numero 2, neanche un mese fa: “Nel  nostro piccolo offriremo agli inquirenti il contributo delle indagini  svolte dal nostro inviato Gian Marco Chiocci, specialista in materia,  che ha i cassetti pieni di documenti interessanti. Nei prossimi giorni  ne pubblicheremo alcuni illuminanti”. Vittorio Feltri si firma, dunque.  Ma non perché abbia un coraggio da leone nel compiere reati,  nell’aggredire le libertà altrui. Semplicemente perché conta sulla sua  impunità. Sul fatto che nessuno oserà chiedere di applicare il codice  penale (ossia la legge) nei confronti del “grande direttore” di casa  Berlusconi. Non sarebbe forse un attentato alla libertà di stampa?
Ecco dunque l’insopportabile differenza. Il personaggio immaginario da  cui siamo partiti, ricevuta la lettera che abbiamo detto, valuterà bene  -infatti- se rivolgersi ai carabinieri o alla procura. Potrà anche  decidere di buttare via tutto. Ma prima penserà se avvalersi o meno  delle leggi esistenti. Perché sa che denunciare un ricatto, una  minaccia, è un suo diritto. Mentre nell’orgia del potere in cui ognuno  cerca di collocarsi al di sopra delle leggi e della buona creanza, si è  costruito in pochi anni il pregiudizio che tutto sia lecito. Che il  diritto delle leggi non esista più e sia stato sostituito da un diritto  “sostanziale”, proprio come per la Costituzione. Per questo i  giornalisti più vicini al Palazzo hanno licenza di ricatto.  Abusivamente.
Fini fra l’altro è il presidente della Camera. E  il codice (articolo 294) prevede anche l’attentato ai diritti politici  del cittadino (figurarsi della terza carica dello Stato!) costituito da  minacce ingiuste che modifichino l’esercizio di quei diritti, in  qualsiasi forma (da uno a cinque anni). Forse sarebbe il caso che si  desse una ripassata ai fondamentali della democrazia. Certi messaggi con  il giornalismo non c’entrano niente. Hanno più a che fare con la foto  dell’amante o la pallottola solitaria spedite a casa in una busta  chiusa.
dal sito http://www.ilfattoquotidiano.it


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