Meno finanza per tutti
di Roberto Cuda
Se c’è una cosa che ha insegnato la crisi finanziaria è che  staremmo tutti meglio con meno finanza.
Dall’agosto del 1971 – quando ha  inizio il regime di “cambi flessibili”, che scardinano il sistema creato  a Bretton  Woods – si sono susseguite decine di crisi finanziarie,  alcune di eccezionale gravità, che hanno messo a repentaglio la  sicurezza di interi paesi e i diritti acquisiti di milioni di persone. Nel  frattempo la finanza ha assunto dimensioni difficili perfino da  immaginare, arrivando a condizionare pesantemente le politiche degli  stati. Ogni anno vengono scambiati titoli per 1.500.000  miliardi di dollari, pari a circa 4.100 miliardi di dollari al giorno,  circa il doppio del Pil italiano prodotto in un anno.
E pensare che nel 1970 tali transazioni si aggiravano tra i 10 e i 20  miliardi di dollari. Oltre il 90% di esse sono di natura  speculativa e questo ha accresciuto enormemente la volatilità dei  mercati e la possibilità di nuove crisi, arrivando a intaccare  l’economia reale. L’illusione che il denaro potesse creare  magicamente altro denaro, senza produrre nulla, ha messo alla prova la  creatività degli ingegneri finanziari, che ogni giorno mettono a punto  nuovi complessi strumenti, talvolta incomprensibili perfino a chi li ha  creati. Si possono benissimo comprare e vendere milioni di  titoli senza nemmeno possederne uno, scommettendo sulle  continue differenze di valore.
Se la finanza nasce come luogo dove chi ha bisogno di capitali può  rifornirsi da chi ne ha in eccesso, oggi essa è per lo più una piazza di  scommesse. Ma i beni sottostanti sono sempre quelli: azioni,  ossia porzioni di aziende, obbligazioni, ossia prestiti ad imprese o a  stati, per attività alle quali lavorano persone in carne ed ossa.  E quando un titolo scende non ci perde solo l’investitore, ma anche i  lavoratori e i consumatori, poiché gli azionisti/investitori faranno di  tutto per far riguadagnare valore alle azioni in portafoglio, tagliando  costi del personale, spese per la ricerca,  servizi al consumatore, misure antinquinamento, oppure intensificando lo  sfruttamento del suolo e dell’ambiente, tutte azioni finalizzate a far  lievitare i profitti. Ma ciò avviene anche quando il titolo non  scende, semplicemente per mostrare un bilancio in attivo alla comunità  degli investitori, che per legge deve essere pubblicato ogni  trimestre.
Il risultato è una continua erosione dei diritti dei lavoratori e un  aumento dell’attività predatoria dell’azienda, a scapito di tutti. Trent’anni  di finanza selvaggia hanno aumentato la disuguaglianza, creando nuove  classi di privilegiati, capaci di maneggiare le leve delle speculazione  finanziaria ma del tutto irresponsabili circa le ricadute sociali delle  loro azioni. La crisi in corso ha già aumentato il debito dei  paesi Ocse di 20 punti percentuali, che a loro volta produrranno oneri  per interessi che ricadranno sulla collettività. Ma sarebbe interessante  fare una stima dei costi economici e sociali dell’ascesa della finanza a  partire dagli anni 70, nonché i costi politici in termini di crisi  della rappresentanza a della sovranità. Vedremmo che forse non è  valsa la pena e a guadagnarci sono stati davvero pochi.  Vedremmo che mai come oggi urge una nuova regolamentazione, che  restringa il raggio di azione della finanza.
E sulla quale, a quanto pare, nessuno ha voglia di lavorare. E allora  dovremmo chiederci cosa potremmo fare come risparmiatori e come società  civile, per non dare sostegno un sistema ormai degenerato. Sulle  colonne del Corriere delle Sera il bravo Massimo Mucchetti si poneva  degli interrogativi cruciali, parlando dei famigerati hedge funds (fondi di  investimento speculativi).
Era il 14 maggio scorso, dopo i primi  violenti attacchi speculativi all’euro: “È troppo chiedere  che i soggetti regolati (perché usano i soldi degli altri) (in primis  le banche, ndr) possano finanziare questi soggetti speculativi solo a  patto che impegnino quote di patrimonio proporzionali alla leva che  questi stessi soggetti speculativi usano e ne diano conto a loro volta  al mercato? E’ sbagliato pretendere che chi specula depositi prima la  posta? O esigere che la libertà di manovra dei fondi sovrani sia  subordinata all’osservanza di obblighi minimi di trasparenza? L’ opacità  di certi operatori, avvertono i magistrati, può servire a riciclare il  denaro caldo delle mafie e dell’ evasione fiscale, ma anche – e sarebbe  una beffa già vista – a usare i soldi delle banche centrali contro le  ‘loro’ monete. Un tal giro di vite comporterebbe, alla fine, meno  finanza? Se fosse, sarebbe forse un dramma? E per chi?”
dal sito www.finansol.it


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