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Morire d'impresa a Nord-Est Nove suicidi in un anno

L’ultimo - si chiamava Danilo, aveva 61 anni - lo hanno trovato la settimana scorsa nella sua Renault, un tubo dallo scappamento all’abitacolo. Era vicino al cimitero di Postioma, nemmeno sette chilometri da Paese, dove un anno fa aveva chiuso l’officina e messo in piedi un’aziendina di ferro battuto che pare non andasse troppo bene. Ora, incollato alla vetrina del bar vicino, resta solo un foglio A4 con la foto in cravatta e l’annuncio dei funerali: «Si ringraziano fin d’ora tutti quelli che interverranno». Ma prima di lui, a primavera e sempre nella provincia di Treviso, dove si conta un’impresa ogni otto abitanti, c’erano stati Walter impiccato a Lutrano per non licenziare i suoi dipendenti, il manager Giorgio - non servono troppi cognomi in questa storia - finito sotto un treno a Godego prima di annunciare la cassa ad alcuni operai. E ancora, citano le cronache, tre suicidi a Vicenza, uno a Montebelluna e uno a Padova, uno a Lucca ma di un padovano, tra operai e imprenditori. Piccoli imprenditori, poco più di artigiani, per la maggior parte, che pagano con la vita il prezzo di una crisi, o forse della crisi. Morire d’impresa a Nord Est, dunque? «Non è un fenomeno, non si possono accomunare casi diversi che nessuno sa davvero cosa nascondano», mettono le mani avanti quasi tutti quelli che incontri fra Treviso e la Marca, capannoni, svincoli, villette, passaggi a livello e sottopassi che s’inseguono; terra di furgoni più che di Tir. Non sarà un fenomeno, ma non è nemmeno un caso se giovedì scorso, - dopo l’ultimo suicidio - il presidente degli industriali di Treviso Leonardo Canal ha preso carta e penna per «incoraggiare tutti i colleghi imprenditori a non demoralizzarsi, a non vivere la crisi dei mercati come un fallimento personale e soprattutto a non isolarsi».

E’ anche la preoccupazione di Mario Pozza, presidente della Confartigianato trevigiana, 13 mila aziende iscritte sulle 26 mila censite: «Qui da noi quando un’impresa va in crisi la cosa viene vista come una sconfitta personale, una vergogna. L’imprenditore che si è suicidato la settimana scorsa lo conoscevo, era uno dei nostri associati. Aveva avviato un’attività artigianale in ferro, crocifissi, che però pare non andasse benissimo. Ma non aveva nemmeno particolari debiti». Perché allora gesti così estremi? «La crisi fa da catalizzatore per due debolezze che sono state in passato punti di forza di questa terra - dice Vittorio Filippi che insegna Sociologia a Verona e studia da tempo imprese e imprenditori del Nord Est - . La prima è la debolezza economica delle imprese, con poca capitalizzazione e nate di recente, che come sub-fornitori o contoterzisti fanno da “polmone” per il sistema produttivo. Insomma sono imprese che in tempi buoni definiamo aggressive, dinamiche, mobili, elastiche, ma che in fasi come questa si ritrovano più deboli e soprattutto molto sole e vedono l’altra faccia di tutti questi aggettivi. E poi c’è una debolezza sociale, visto che questo è un capitalismo personale dove, più che un’impresa, ciascun imprenditore costruisce un progetto di vita. E quando il progetto fallisce...» Quando il progetto fallisce - spiega il direttore generale di Unindustria Giuseppe Milan, nella bella sede con il parquet e le guide all’esportazione in bella mostra - «paradossalmente è proprio la forte coesione sociale che può creare casi tragici. Qui il piccolo imprenditore è nella stragrande maggioranza dei casi un ex operaio che si è messo in proprio. Di giorno lavora fianco a fianco con i dipendenti, la sera gioca a scopa al bar sempre con loro. Il conflitto sociale è basso: con tutte le ristrutturazioni che ci sono state abbiamo avuto solo due occupazioni di aziende». Nuovi problemi ma anche vecchi vizi. In prima pagina su «La Tribuna» titolone: «Beccato finto povero con lo yacht». I numeri del Nord-Est che soffre per un calo del fatturato tra il 30 e il 40% li mette in fila a colpi di PowerPoint Daniele Marini, professore di Sociologia dei processi economici a Padova, nella sede della Fondazione Nord-Est di cui è direttore scientifico: «Qui ogni media impresa ha in media rapporti con 274 subfornitori, significa che fatto 100 il prodotto di un’azienda l’80% lo producono piccole aziende che sono costrette a fare il salto assieme a quelle più grandi». E in quella che è terra di frontiera in tutti i sensi, assai esposta ai venti della congiuntura internazionale, il tasso di disoccupazione resta basso - sotto il 5% - pesa l’incertezza. «Da un anno a questa parte la metà delle imprese - spiega Marini - ha un portafoglio ordini inferiore a un mese, meno di un quarto vede oltre i tre mesi». Certo la crisi non è appannaggio degli imprenditori. La cassa integrazione ordinaria e quella straordinaria tirano al massimo e le preoccupazioni sono per la prossima primavera, quando l’effetto si esaurirà. Stasera a Santa Maria di Sala, vicino a Noale dove c’è l’Aprilia, si tiene una veglia di preghiera per il lavoro. E Giuseppe Sforza, segretario generale della Filcem Veneto, assieme «al fenomeno che vediamo da sei o sette mesi, ossia un assoluto blocco del turnover dei dipendenti, segno che chi ha un posto se lo tiene stretto», segnala un dato nuovo, «empirico e non statistico». Quale? «Torno adesso da una fabbrica che non va particolarmente bene dove arrivano comunque tanti curricula di chi cerca lavoro.

In mezzo, per la prima volta, anche le richieste di ex lavoratori autonomi o artigiani che hanno chiuso la partita Iva e ora vorrebbero essere dipendenti». Gli ostacoli alle imprese sono gli stessi di ogni angolo d’Italia, «le banche che ci mettono in media 77 giorni per dare una risposta ai finanziamenti - elenca Pozza -, il Fisco, uno Stato che considera l’impresa nemica». Ma le conseguenze del fallimento, quelle no. «Alle Messe c’è affluenza - commenta Don Alberto Bernardi, responsabile della Diocesi per la Pastorale sociale e del lavoro - ma la fede probabilmente non tocca sfere come quelle degli affetti e del lavoro. Come Chiesa dovremo far crescere la coscienza dell’imprenditore in quello che fa, ma in questo clima d’incertezza è difficile». «Non abbiamo una cultura anglosassone che considera il fallimento parte possibile del percorso di un imprenditore - dice Marini - e chi fallisce è per l’appunto un “fallito”, anche per la legge. I piccoli e i piccolissimi sono abbastanza lasciati a se stessi».

Francesco Manacorda
www.lastampa.it

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