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I furbetti di Facebook

Chiunque abbia un account Facebook, la scorsa settimana avrà sicuramente notato come nella propria home page campeggiasse una lettera personale del fondatore Mark Zuckerberg, in cui veniva spiegato che a breve le impostazioni sulla privacy sarebbero state cambiate. Il crescente numero di utenti, circa 350 milioni, pare aver infatti inficiato l’efficacia di alcune barriere come i network regionali, utili quando il sito contava poche migliaia di persone perché consentivano la condivisione di informazioni anche con chi non fosse propriamente un amico. Nel tempo queste reti territoriali hanno cominciato a contare centinaia di migliaia di persone e la facilità con cui era possibile carpire notizie personali, ha spinto i vertici dell’azienda a eliminarle definitivamente, introducendo una nuova piattaforma d’impostazioni.

Sulla carta, l’operazione di Zuckerberg e soci appare tecnicamente perfetta e soprattutto rispettosa della privacy dei singoli utenti, ma dalla Electronic Frontier Foundation - la più stimata organizzazione no profit nell’ambito della tutela dei diritti civili sul web - arriva un rapporto in cui le innovazioni vengono perlopiù criticate. Secondo gli esperti di San Francisco, infatti, le nuove impostazioni di privacy spingono gli utenti a diffondere nel web i loro contenuti personali: una volta apparso il cosiddetto “transition tool”, il fruitore di Facebook è stato messo davanti al fatto che (di default) tutte le sue informazioni erano visibili a chiunque, e nel caso in cui non si fosse andati personalmente a modificare le impostazioni, i contenuti sarebbero rimasti totalmente accessibili.

A onor del vero, la transizione ha portato una semplificazione significativa dei passaggi per la pianificazione della privacy. Con un’interfaccia più chiara ed intuitiva è ora possibile scegliere, ambito per ambito, cosa far vedere a tutti, solo agli amici oppure agli amici degli amici. In questo modo la privacy sembrerebbe in una botte di ferro: basta un po’ di accortezza ed è possibile schivare il rischio di avere le proprie foto in ambienti o atteggiamenti poco consoni, diffuse su tutto il web.

La questione non è però così semplice. Quando Zuckerberg e soci ci dicono ad esempio che le nostre generalità - ovvero sesso, data di nascita, residenza, lista degli amici e pagine - sono automaticamente visibili nel momento in cui noi facciamo uno di quegli irresistibili test sulla nostra personalità freudiana o parliamo con la nonna di Bari vecchia, si dimenticano di precisare che è proprio da questa nostra gentile concessione che arrivano gli utili della loro azienda. In pratica quei giochini tanto carini sono delle immani miniere d’informazioni su gusti, inclinazioni e comportamenti personali che vanno ad ingrassare le liste di compilazione necessarie a sondaggi e ricerche di mercato di ogni genere e sorta. E com’è ovvio ogni servizio ha un prezzo.

Se a ciò aggiungiamo il fatto che ogni restrizione sulla privacy è una perdita in termini di guadagno per quanto riguarda la probabilità di indicizzazione sui vari motori di ricerca, Google in testa, ben si potrà capire come mai durante la fase di setting delle impostazioni due righe di testo ci suggerissero che “consentire a tutti di vedere le informazioni, faciliterà l’identificazione da parte degli amici”. D’altra parte la concorrenza di una piattaforma come Twitter, in cui tutti i contenuti sono pubblici e di conseguenza indicizzabili da Yahoo e soci, ha un peso sempre maggiore nei bilanci dell’azienda di Zuckerberg.

Ora, il problema non sta tanto nella pubblicazione d’informazioni quali l’istruzione o il luogo di lavoro. I guai cominciano ad arrivare nel momento in cui ragazzini poco meno che adolescenti lasciano, o per buona fede o per pigrizia, le impostazioni di default e rendono pubbliche immagini appetibili ad ogni sorta di maniaco deviato che circoli in rete. Sebbene al momento dell’iscrizione si richieda la maggiore età, su Facebook sono presenti migliaia di studenti delle medie e delle elementari, bambini e ragazzini che si approcciano con curiosità alla rete e vedono in questo sito la via più semplice per creare network interattivi con i propri compagni di scuola, di sport o di vacanze. Sono loro che statisticamente pubblicano più informazioni, sono loro la più grande fonte di guadagno per le ricerche commerciali ma sono anche loro ad essere i più esposti alle minacce che un sistema come il web, anarchico per antonomasia, non può illudersi di combattere né tantomeno eludere.

di Mariavittoria Orsolato
http://www.altrenotizie.org/cultura/2896-i-furbetti-di-facebook.html

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