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Studia, figlia mia.

di Rita Pani

Figlia mia studia. Anzi, figlia mia, ricorda quel che diceva Lenin: “Studiare, studiare e dopo ancora studiare …” Studia oltre quel poco, e a volte sbagliato, che ti insegnano a scuola. Dovrai nella vita poterti far scudo col tuo sapere. Ora però scusami, figlia mia, per avertelo insegnato.
E quando le figlie studiano, un giorno piccole, piccole come saranno sempre le figlie, le accompagnerai all’imbarco dei voli internazionali di un grande aeroporto, e le vedrai sparire, come inghiottite dalla marea di varia umanità e di tanti colori, e penserai con orgoglio che forse si stanno mettendo in salvo. Una speranza che cheterà l’ansia e il dolore della lontananza. La loro salvezza sarà l’unica cosa alla quale ci si potrà aggrappare quando la nostalgia si farà più forte.
Studia figlia mia, studia e preparati a scappare. Vai oltre il poco sapere che qualche eroico professore riesce a donarti, assorbi quanto più puoi dai libri e dalla vita, per poter correre lontano, molto lontano da qui. Perché qui non è posto per te.
Qui è un posto di altre madri, e di altre figlie. Un posto assoggettato ormai al volere di un padre di famiglia, uno di quelli dispotici e incestuosi. Lo zio dalle mani lunghe che fruga sotto le gonne delle nipoti, fingendo d’essere tenero e affettuoso. Uno che ha insegnato ai sudditi suoi “l’altra moralità”. Quella della meritocrazia che salta all’occhio, quando più tette hai e più sei brava. Quella che nel curriculum dovrà indicare la profondità della sua gola.
È un posto che nemmeno Caligola avrebbe potuto immaginare, una sorta di corte del “Re Sola”, con i ruffiani e le cortigiane che si accontentano di un faro illuminante, di una telecamera contro cui muovere il culo, di sposare un calciatore, di avere in dono gioielli e vestiti. E quelle che mirano più in alto, ma quelle proprio meritevoli e molto brave, saranno addirittura ministre.
Corri veloce figlia mia, perché ho paura che la difficoltà della vita possa spingerti a ricercare la facilità della strada in discesa. Ho timore che tu, per non aver pensieri, possa un giorno decidere di uccidere una tua amica, per poter essere sì protagonista. Ho paura di vedere il tuo volto sfigurato dalla plastica in tenerissima età, per essere all’altezza di salire agli onori della cronaca, per essere passata sotto l’occhio vigile del direttore di telegiornale, che di mestiere fa il pappone. Ho timore di vederti salire le scale della questura, e non per aver provato a rendere questo un posto migliore, ma per dover raccontare di quello zio maiale, a cui ci si vende per una macchina o una busta di danaro.
Scappare, scappare e dopo ancora scappare. Non dar retta a me, se mi venisse voglia di insegnarti a r-esistere e lottare. La mia generazione è colpevole e in debito con te. Esigi da me che sia io a riparare.
Rita Pani (APOLIDE)

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