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lunedì1 febbraio

S.M. s'è incendiato

Non hanno urlato a voce molto alta ieri, che un operaio bergamasco si è dato fuoco perché rimasto senza lavoro. Oggi invece ho trovato un trafiletto su Repubblica, sul quale vi era scritto che l’operaio era morto. Ora S. M. (36 anni) ha meritato persino un articoletto, nel quale si spiega che non ha retto alla disperazione. S. M. l’alibi delle iniziali a tutela della privacy, una pratica che mi fa imbufalire. L’importante è spersonalizzare, rendere meno umana la vicenda di modo che ci si possa limitare a dire “poveretto” o anche solo a pensarlo, scuotendo un poco il capo.

Forse si è dovuto parlare per forza di S.M. perché si è dato fuoco sulla pubblica via; troppo evidente per essere ignorato, come tutti gli altri che quotidianamente trovano rifugio impiccandosi a un albero o sparandosi in bocca. O sempre più donne che si avvelenano. No la disperazione è una mela avvelenata che non si deve dare in pasto a un popolo che si stufa presto delle cattive notizie. Un popolo che nonostante tutto ha fortemente voluto credere al sogno che gli ha regalato un piazzista imbroglione.

Tutti almeno una volta nella vita abbiamo “desiderato” un giornale che portasse solo buone notizie, invece credo che sarebbe opportuno il contrario, visto che invece quel che raggiunge le vergini orecchie del popolo italiota non è altro che la summa di una banale propaganda.

Dovrebbero rifiutarsi, i giornalisti, di continuare a far da megafono al maniaco del consiglio e ai suoi burattini rilanciando le sue idiozie, e chissà magari non dirci nemmeno se in Israele racconterà la barzelletta dell’ebreo che diventa sapone. Raccontare la vita reale, quella che forse molti di noi non vogliono sapere, sperando così di non restare contagiati dalla disperazione.

Dovrebbe esserci un quotidiano stillicidio di piccoli fatti destinati all’oblio, fatto dei visi che conosciamo e che qualche volta d’improvviso guardandosi allo specchio, si trovano invecchiati e stanchi. Con gli occhi spenti proprio da quella vita che diventa troppo in salita, anche quando ancora certi della nostra buona volontà.

S. M. avrebbe meritato almeno il suo nome in neretto, per restare impresso nella memoria di chi con la sua indifferenza se non colpevole, almeno si rende complice della sua morte. Dovrebbero raccontare che volte la disperazione da sola non basta per far decidere a qualcuno di morire; dovrebbero dirci che la disperazione si aggiunge alla quasi assoluta certezza che questo nostro piccolo mondo non è più in grado di offrirci nulla, e che siamo stati traditi quando abbiamo lasciato che qualcuno ci rubasse il sogno e la speranza, per ridarcene indietro uno fatto di belle ragazze con i tacchi alti, uomini senza le orecchie a sventola, chirurghi plastici, ladri, figli di puttana, mafiosi e piduisti.

Quando la disperazione si ferma un attimo a guardare il tetro panorama che appare alla finestra, è allora che può uccidere chiunque di noi … è questo però, che non siamo pronti a sentire.

Rita Pani (APOLIDE)

http://www.r-esistenza-settimanale.blogspot.com/

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