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Marcegaglia vede il Tremonti-bluff

La leader di Confindustria ha proposto ieri di destinare direttamente alle imprese i soldi statali che le due principali banche italiane, Banca Intesa e Unicredit, hanno rifiutato, declinando l'offerta dei Tremonti-bond. Offerta che non convince perché, come rivela Milano Finanza, i 10 miliardi di euro non ci sono
La proposta di dare i soldi direttamente alle imprese è sensata. In primo luogo, perché le banche non è detto che trasferiscano i soldi pubblici alle imprese. Al contrario, è probabile che li utilizzino, come in effetto è successo in tutto il mondo, per altri scopi, come l'investimento speculativo o l'aumento di capitale. In secondo luogo, se l'obiettivo è quello di sostenere le PMI, particolarmente colpite dalla crisi, non si capisce perché si debba passare per la costosa intermediazione delle banche. Le parole della Marcegaglia rivelano il bluff che si nasconde dietro la proposta dei Tremonti-bond. Il ministro dell'Economia, che ha accusato le banche di volere la rovina delle piccole imprese rifiutando i suoi bond e di preparare una nuova crisi, in realtà vende fumo e fa il gioco delle tre carte coi soldi pubblici. Infatti, come rivela Milano Finanza, i 10 miliardi di euro non ci sono. Per recuperarli, il Tesoro avrebbe dovuto tagliare la spesa pubblica e c'è da scommettere che a farne le spese sarebbe stato il già tartassato welfare state. Inoltre, il ministro Tre-carte non fa un gran favore alle banche, applicando un interesse sul prestito del 7,5%, appena al di sotto del tasso di usura sui mutui, fissato da Bankitalia al 7,76%.
Ad ogni modo, il messaggio di Tremonti, secondo il quale la crisi dipenderebbe dalle banche, è fuorviante. È fuorviante a livello mondiale, perché la crisi nasce nella produzione ed è crisi di sovrapproduzione di capitale e di merci.
Se la crisi si è manifestata nella forma del crack finanziario è perché si è voluto sostenere artificialmente un mercato allo stremo con una esposizione creditizia sempre più esagerata. Soprattutto il messaggio sulle banche è fuorviante in Italia, dove la crisi incide in modo più pesante che altrove per ragioni specifiche. La prima consiste nel fatto che la struttura produttiva italiana è caratterizzata da aziende di dimensioni medie troppo piccole, che hanno fondato la loro capacità competitiva sulla svalutazione della lira (ora impossibile con l'euro), sui salari più bassi della Ue, sul lavoro nero e soprattutto sull'evasione e sull'elusione fiscale. Tutte leve competitive che non bastano più, ed anzi creano difficoltà, perché il nanismo aziendale impedisce le necessarie economie di scala e gli investimenti in tecnologia e ricerca. La seconda ragione è che da decenni in Italia è stata annullata qualsiasi politica industriale e infrastrutturale a livello statale centrale, per l'assoluta preminenza data all'impresa privata, all'anarchia del mercato, e al localismo. La terza ragione, infine, risiede nella prevalenza all'interno dell'economia del monopolio, grazie alle privatizzazioni, che hanno permesso ai grandi capitalisti di rifugiarsi nelle rendite degli ex monopoli statali. Del resto, il proliferare della piccola e media impresa contoterzista è stato guidato dalla grande impresa, riorganizzatasi e frammentatasi sul territorio attraverso l'esternalizzazione selvaggia.
Ora, ci si lamenta delle banche e del restringimento del credito alle PMI, ma non si dice che per anni si è alimentata una classe di padroncini inadeguati alla nuova competizione mondiale. "Io padrone solo di crepare con le mani unte. Padrone di un peso che non so più portare", scrive nella lettera a un quotidiano uno di quei padroncini fino a ieri esaltati da mass media e economisti come gli attori del "nuovo miracolo italiano". Alle PMI che possono sfruttarlo, il governo offre l'ennesimo scudo fiscale, permettendogli ancora una volta di giovarsi dell'evasione fiscale, alle altre offre solo facile demagogia contro le banche. Se il governo avesse voluto davvero dare soldi alle imprese in difficoltà glieli avrebbe potuti dare direttamente, come ora chiede Marcegaglia, e se avesse volesse voluto realmente contrastare le rendite della grande banca, avrebbe potuto chiedere la riduzione dei costi delle commissioni bancarie, denunciati dalla Commissione Ue per essere i più alti d'Europa.
Ma è l'approccio complessivo alla crisi del governo che è assolutamente insufficiente. Anziché affrontare la recessione sul piano nazionale, Tremonti rincorre la Lega, riproponendo la centralità della dimensione locale, un vero suicidio nella fase attuale. Le sparate mass mediatiche di Tremonti, così come lo scudo fiscale, sono dirette ad ammansire l'ira di centinaia di migliaia di piccoli e piccolissimi imprenditori/artigiani e dei loro dipendenti, che si è tradotta nello spostamento di parecchi punti percentuali dell'elettorato dal Pdl alla Lega, durante le ultime elezioni europee. Dietro al tentativo di spostare le cause della crisi sui "cattivi" delle banche c'è, quindi, il tentativo di puntellare il blocco sociale berlusconiano, che è messo in difficoltà da ragioni un po' più strutturali degli scandali D'Addario e Noemi, e cioè dall'inadeguatezza dell'economia italiana di fronte alla mondializzazione e alla crisi. Nello stesso tempo, la polemica di Tremonti con le banche, rappresenta un altro capitolo dello scontro di potere con quella parte del grande capitale italiano, costituito dall'intreccio di grande banca e grande impresa, che non sembra essere molto soddisfatta del governo Berlusconi.

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